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I mille volti di un museo

I mille volti di un museo: intervento di Andrea Viliani

In occasione dei venti anni del Corso di Perfezionamento per Responsabile di Progetti Culturali, proponiamo una riflessione di Andrea Viliani, dal 2013 direttore generale della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, fondata e interamente partecipata dalla Regione Campania e a cui, dal 2005, è affidata la gestione del MADRE--Museo d’arte contemporanea Donnaregina. Andrea, partecipante  del CRPC IV – edizione 1999/2000 è approdato a Napoli dopo esperienze in ambito nazionale e internazionale presso il MAMbo di Bologna, la Fondazione Galleria Civica di Trento, il Castello di Rivoli e Documenta a Kassel-Kabul.

In qualità, dal 2013, di Direttore della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee e del museo MADRE di Napoli, io e il mio staff, che ringrazio, abbiamo cercato di evocare, nel nostro lavoro quotidiano, un museo che rispondesse a queste caratteristiche, che evocasse, per così dire, questa “esperienza istituzionale”:

 

  • Un museo in grado di affrontare il rischio, trasformandolo in opportunità.
  • Un costruttore di identità per la propria comunità, in grado di catalizzare il sistema, la rete di collaborazioni, sensate e continuative, della Napoli del contemporaneo (Napoli, del resto, che oggi identifichiamo con la sua archeologia, paesaggio, enogastronomia, significa, fin dalle sue origini: “nea polis / città nuova”).
  • Uno spazio-tempo, però, dove contraddire o approfondire ciò che intendiamo per contemporaneo (ricordando, come dice l’artista Maurizio Nannucci, che “tutta l’arte è stata contemporanea”).
  • Un parlamento intellettuale.
  • Un crocevia culturale, dove le culture contemporanee si mischiano e, insieme, un ambasciatore per la cultura del contemporaneo campana e italiana.
  • Un produttore pubblico di conoscenza (l’amico e collega Francesco Manacorda, Direttore della Tate Liverpool, direbbe, un “intellettuale pubblico”)
  • Un intrattenitore responsabile (in grado di sviluppare progetti che siano al contempo di intrattenimento e di alta cultura o, per usare l’espressione di un altro artista, l’americano David Robbins, di “high entertainment”).
  • Un attrattore performativo di fondi e di pubblici, sia reali che potenziali.
  • Un motore di sviluppo e inclusione sociale ed economico.
  • Un cervello collettivo che combina due missioni: Ricordare (storia, tradizione, collezioni, passato) e Immaginare (nuove situazioni e soluzioni, visioni sul futuro)

 

Le istituzioni culturali stanno affrontando, oggi, e non solo in Italia, un periodo storico di schiacciante rischio e insicurezza (economica, sociale, politica e culturale). Il “rischio”, e come affrontarlo in un clima di diffusa insicurezza, è il principale tema che ogni istituzione culturale contemporanea si troverà ad affrontare nei prossimi anni. Ma il “rischio”, troppo spesso, è solo esorcizzato dalle istituzioni, non accolto, esplorato e infine condiviso con il proprio pubblico, per trasformarlo, insieme, in un potente stimolo per individuare nuove opportunità. L’arte, e le istituzioni artistiche, dovrebbero essere innanzitutto percepite oggi, invece, da chi le amministra, come potenti strumenti per trasformare il rischio in nuove opportunità. L’arte produce pensiero, come qualunque altra specifica disciplina, con cui può essere messa in relazione in base ai suoi propri parametri conoscitivi. L’arte, nelle sue varie forme, può quindi effettivamente offrire a ogni fascia o tipologia di pubblico una varietà di approcci intellettuali, una pluralità di saperi e conoscenze in grado di ricaricare la mission dell’istituzione-museo, quale erogatore di servizi che possono contribuire a fornire strumenti per affrontare meglio qualsiasi tipo di rischio e che possono dotare i suoi utenti di un più attivo e responsabile, intimamente quanto collettivamente, approccio ai rischi connessi alla contemporaneità. Del resto, nella società contemporanea, post-capitalista e post-ideologica, gli intellettuali non sono più l’avanguardia che guida il capitale, ma i suoi nuovi operai, privati di autorità e integrati nel cosiddetto “capitalismo cognitivo”. Quindi la “conoscenza”, e il pubblico accesso ad essa, sono diventati oggi un fattore particolarmente critico, un campo di battaglia fra standardizzazione e capacità di innovazione, omologazione e mantenimento di una personalità propria.

Nonostante le, o grazie alle, provocazioni delle avanguardie storiche (dal Futurismo in poi), che proclamarono il museo quale entità ostile che meritava solo di essere distrutta, i musei sono diventati una pietra miliare nella formulazione del Modernismo. Negli anni ’60 e ’70, l’approccio storico conosciuto come “institutional critique’’ ha permesso di analizzare ogni aspetto del contesto istituzionale, fino a proporre musei immaginari come valide alternative artistiche e curatoriali ai musei reali (per esempio con il Musée des Aigles di Marcel Broodthaers o il Museum of Obsessions di Harald Szeemann). Negli anni ’80 una nuova generazione di artisti, critici e curatori (in modo specifico le cosiddette “estetiche relazionali”) ha investigato l’attualità o inattualità dei formati istituzionali: produrre una mostra, definirne il lay-out, o persino scriverne il comunicato stampa… sono stati interpretati come atti di riflessione sulla possibilità di personalizzare i formati istituzionali. Questa reinvenzione ha caratterizzato molta parte dell’”arena museale” (almeno occidentale), ed occorre oggi, in questa “arena”, porsi la questione di come, in effetti, reagire all’evidente, inarrestabile depersonalizzazione e standardizzazione di molte istituzioni artistiche contemporanee. Reagire al sistematico depotenziamento della conoscenza nell’industria culturale (di cui anche i musei fanno ormai parte integrante) significa mettere in questione un uso della cultura come semplice bene di consumo (eventualmente flirtando con questa situazione), e espandere invece l’impatto dell’istituzione artistica e della sua azione intellettuale nella sfera pubblica al di là di quello che appare, in un certo senso, il nostro dovere professionale e il nostro destino di operatori dell’industria culturale.

 

Un direttore di museo, quindi, dovrebbe essere oggi molte cose:

 

  • Un manager, esperto di marketing culturale, certo, ma anche uno storyteller.
  • Un politico, certo, ma anche un attivista.
  • Un contemporaneista, certo, ma anche un viaggiatore nel tempo.
  • Un membro integrato in un team di lavoro ma anche una persona dotata di un progetto individuale, chiaro e specifico, di una sua unique selling proposition intellettuale.
  • Una persona affidabile e un problem solver, ma anche un abile spia o – permettetemi quest’ultima citazione (dal critico e curatore Achille Bonito Oliva) – un vero e proprio “traditore”.

 

Il rischio della schizofrenia c’è! Ma solo così, credo, si può operare in un contesto come quello istituzionale, oggi.